30 giugno, 2012

Diventare giocolieri aiuta il cervello



Può essere un'ottima attrattiva alle feste e utile per chi lavora in un circo. Ma imparare a fare il giocoliere può anche modificare alcune aree del cervello di un adulto. In meglio.

Diventare giocolieri aiuta il cervello
Può essere un'ottima attrattiva alle feste e utile per chi lavora in un circo. Ma imparare a fare il giocoliere può anche modificare alcune aree del cervello di un adulto. In meglio.

Cosa si può fare per potenziare il proprio cervello? Imparare a fare il giocoliere. Non è una battuta di spirito, ma il risultato di uno studio condotto dai ricercatori dell'University of Regensburg, in Germania. Finalmente, per dare “gas” al proprio cervello non vengono suggeriti studi matematici, tecniche mnemoniche, test logici, pastiglie di fosforo e quant'altro, ma il libero sfogo della creatività, il movimento del proprio corpo all'aria aperta, e giochi di destrezza e abilità. Gli studiosi tedeschi, infatti, hanno provato che quest'attività può causare cambiamenti “visibili” nel cervello, agendo da potenziatore cerebrale.
La materia grigia è “elastica”. Il team ha esaminato 24 persone non abili a fare i giocolieri: metà sono stati addestrati per riuscire, almeno per 60 secondi, a mettere in atto la tradizionale “cascata a tre palle”, l'altra metà è stata utilizzata come gruppo di controllo. A tutti i partecipanti, i ricercatori hanno applicato una tecnica per misurare le concentrazioni di tessuto cerebrale con la quale hanno ottenuto risultati sorprendenti: nel gruppo di controllo non sono stati registrati cambiamenti nel cervello, mentre nel gruppo dei “giocolieri” è stata registrato un aumento della misura in due aree del cervello. Più precisamente, i giocolieri hanno sviluppato una maggiore materia grigia (che consiste perlopiù in cellule neuronali) nell'area medio-temporale e nel solco intraparietale posteriore sinistro, due regioni “addette” all'informazione visiva del movimento. Analoghi incrementi sono stati registrati anche su un'altra regione cerebrale, la sostanza bianca, cioè l'insieme di fasci neuronali che connette le diverse aree del cervello.
Ritorno al passato. Dopo una "pausa" di tre mesi, durante il quale i giocolieri non hanno più praticato l'attività, i ricercatori hanno registrato una sorta di "regressione" del cervello, ossia un ritorno alle misure normali.
Secondo gli studiosi, questi risultati sfidano il punto di vista, accreditato dai più, secondo il quale le esperienze non hanno effetti sul cervello. «La ricerca mostra che quello che noi facciamo nella vita di tutti giorni può avere un impatto non solo su come il nostro cervello funziona, ma sulla sua struttura ad un livello più macroscopico», ha affermato la studiosa Vanessa Sluming.

Siamo tutti un po' Leonardo?


Controlla lo stato di forma del tuo cervello e scopri l'inventore che è in te.

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Ascoltare Mozart rende davvero più intelligenti?


ffetto Mozart: cosa c'è di vero? Ascoltare le "sonate" ha davvero effetti positivi sul cervello?


Ascoltare musica fa rilasciare dopamina, e questo migliora le prestazioni cognitive. Ma funziona con Mozart o con Lady Gaga? In realtà funziona con tutti i tipi di musica: basta che al vostro cervello risulti piacevole.<br>Foto: Barbara Krafft/Corbis
Ascoltare musica fa rilasciare dopamina, e questo migliora le prestazioni cognitive. Ma funziona con Mozart o con Lady Gaga? In realtà funziona con tutti i tipi di musica: basta che al vostro cervello risulti piacevole.

Forse, ma non più di quanto accadrebbe se ascoltaste la tracklist del vostro cantante preferito. Il cosiddetto "effetto Mozart" fu reso noto al grande pubblico nel 1993. In un articolo apparso su Natureun'equipe di neurobiologi dell'Università della California ad Irvine sosteneva che facendo ascoltare agli studenti 10 minuti di Sonata, i soggetti dimostravano un miglioramento nelle capacità di ragionamento spazio temporali. Sfruttando la risonanza mediatica dello studio, Don Campbell, un insegnante di musica del Texas, capitalizzò l'idea scrivendo un bestseller, The Mozart Effect (1997).

Mito o realtà?
Ma per gran parte del mondo scientifico l'effetto Mozart è solo un mito. Ascoltare musica, in particolare musica piacevole come quella del compositore austriaco, fa aumentare il livello di dopamina (un neutrasmettitore che solleva il tono dell'umore) nel cervello, fattore che molto probabilmente migliora le prestazioni cognitive. Ma lo stesso effetto positivo si avrebbe ascoltando un cd di Adele, se vi piace la sua musica, o «mangiando una barretta di cioccolato», come sostiene Glenn Schellenberg, un professore di psicologia dell'Università di Toronto che si è occupato di questo argomento.




Conferme austriache
Ha confermato questa teoria anche uno studio austriaco del 2010: comparando 39 esperimenti incentrati sull'effetto Mozart, i ricercatori hanno concluso che la teoria che questa musica in particolare migliori le capacità spaziotemporali non è suffragata da sufficienti prove. Il che non significa che, se siete grandi appassionati di Mozart, ascoltarne le sonate non abbia effetti positivi sul vostro cervello. Recentemente alcuni ricercatori dell'Università del Texas Health Science Center di Houston hanno osservato che i chirurghi che ascoltavano Mozart prima di cercare i polipi nel colon di un paziente ne trovavano percentualmente di più di chi non aveva ascoltato musica. Probabilmente, quindi, i medici avevano un debole per la musica classica. Ma se, poniamo, fossero stati fan di Laura Pausini e avessero ascoltato a tutto volume il suo ultimo concerto, l'effetto sarebbe stato simile.

Mangiare con gli occhi? Non è soltanto un modo di dire


Le parole che hanno a che fare con il cibo appaiono più nitide alle persone affamate. Un processo che avviene a livello inconsapevole.


Affamati? Le parole che indicano il cibo vi sembreranno più nitide e chiare delle altre. Photo credit: © Volker Moehrke/Corbis
Affamati? Le parole che indicano il cibo vi sembreranno più nitide e chiare delle altre.

Non sempre i nostri sensi ci servono nel più onesto dei modi: anche lo sguardo più attento è naturalmente influenzato da quello che accade nella mente. E le conseguenze di questa sinergia sono spesso piuttosto curiose.
Un nuovo studio pubblicato sulla rivista scientifica Psychological Science dimostra che quando siamo affamati vediamo le parole inerenti al cibo in modo più chiaro e nitido rispetto agli altri vocaboli. E questo "superpotere" si genera ancora prima che il cervello abbia tempo di analizzare l'informazione sensoriale consegnata dagli occhi.

Brontolii di stomaco

Da tempo gli scienziati sanno che i nostri sensi sono influenzati dalla mente, ma l'enigma da sciogliere era capire se la dispercezione avvenisse non appena gli occhi (in questo caso) captano l'informazione o un istante più tardi, non appena il cervello ha la possibilità di elaborare il contenuto sensoriale, operazione che coinvolge un livello più alto di coscienza.

Per rispondere a questo interrogativo Rémi Radel dell'Università Sophia-Antipolis di Nizza, in Francia, ha reclutato 42 soggetti, studenti con un indice di massa corporea nella norma. Nel giorno dell'esperimento, agli studenti è stato chiesto di arrivare a mezzogiorno e a stomaco vuoto, dopo tre-quattro ore dall'ultimo pasto. A quel punto, ai volontari è stato detto che c'era un ritardo: metà di loro è stata invitata a tornare 10 minuti più tardi, all'altra metà è stata concessa un'ora per la pausa pranzo. Al momento del test, quindi, metà dei volontari era affamata e l'altra metà aveva appena finito di mangiare.

Un bombardamento di parole

Durante l'esperimento i volontari sono stati sistemati davanti allo schermo di un computer, sul quale si sono alternate 80 parole, un quarto delle quali collegate al cibo. Ciascun vocabolo è passato sullo schermo per un trecentesimo di secondo, e con una dimensione al limite della soglia che consente di percepire una parola coscientemente.
Dopo ciascun passaggio di vocabolo, a ogni volontario è stato chiesto quanto nitidamente avesse percepito quella parola e quale tra due parole, una collegata al cibo e una neutra ma simile per grafia e assonanza (ad esempio gateau, dolce, e bateau, battello) gli fosse passata davanti agli occhi. Ciascuna delle parole proiettate sullo schermo è rimasta troppo poco a lungo perché i volontari potessero davvero leggerla.

Meccanismo di sopravvivenza

Le persone affamate hanno dimostrato di vedere le parole inerenti al cibo più chiaramente e hanno avuto migliori risultati nella parte di riconoscimento dei termini culinari. Ma poiché le parole sono apparse troppo velocemente per poter essere lette davvero, significa che la differenza di percezione si riscontra prima che il cervello abbia il tempo di riconoscere il termine e la sua provenienza semantica. «È incredibile che gli esseri umani riescano a percepire immediatamente ciò di cui hanno bisogno» ha commentato Radel «c'è qualcosa in noi che seleziona le informazioni esterne per renderci la vita più facile».

Ricostruito il rumore delle parole nel cervello


Per la prima volta possiamo sentire il suono dei vocaboli pensati nella nostra mente. Un primo passo verso la telepatia?


Il suono delle parole lette e quello delle parole pensate implicano una analoga attività neurale. Photo credit: © Sean De Burca/Corbis
Il suono delle parole lette e quello delle parole pensate implicano una analoga attività neurale. 

Quando leggete una frase, come in questo momento, vi sembra di sentire la vostra voce che scandisce le parole nella mente. È un discorso interiore, che potete udire solo voi. In futuro, tuttavia, questo fluire di parole potrebbe diventare percepibile anche all'esterno: studiando il cervello impegnato nell'ascolto di frasi, infatti, è possibile ricostruire l'andamento delle onde cerebrali e "tradurre" in suoni l'eco delle parole pensate nella mente.

Dal suono al significato

«Immaginate un pianista davanti a un concerto suonato in televisione» spiega Brian Pasley dell'Università della California, a Berkeley. «Anche se l'audio è impostato su muto, gli sembrerebbe di sentire comunque la melodia, perché sa quali tasti corrispondono alle varie note. Noi abbiamo cercato di fare qualcosa di analogo con le onde cerebrali: abbiamo collegato le diverse attività nelle aree neurali con i suoni corrispondenti».
Il meccanismo con cui il cervello converte il discorso udito in informazioni veicolanti un significato non è ancora del tutto chiaro. L'idea di base, comunque, è che il suono attivi i neuroni sensoriali, i quali passano poi l'informazione alle diverse aree cerebrali dove i vari aspetti del suono (come frequenza, ritmo, scomposizione sillabica) vengono analizzati e percepiti come linguaggio. Gli esperti credono che l'attività cerebrale che si genera in risposta a una frase ascoltata sia simile a quella che si genera quando pensiamo a quella stessa frase.

A ogni area il suo compito

I ricercatori hanno fatto ascoltare una serie di parole lette da diverse voci a 15 persone aventi elettrodi collocati sulla corteccia cerebrale in seguito a episodi di epilessia o interventi chirurgici per la rimozione di un tumore.
Si è così riusciti a registrare l'attività neurale sulla superficie dei giri superiori e mediotemporali, un'area del cervello vicino all'orecchio che è implicata nella processazione dei suoni. Grazie a queste registrazioni l'equipe è riuscita a collegare i diversi aspetti del suono a specifiche attività neurali. «I neuroni in alcuni punti potrebbero occuparsi, poniamo, solamente delle frequenze sul range dei 1000 hertz e non interessarsi d'altro, altri soltanto delle frequenze sui 5 mila hertz» continua Pasley. «Una volta identificata la frequenza di cui si occupano le varie aree, sapremo che quando l'attività in quelle aree aumenta, è perché c'è stato un suono di quella particolare frequenza». Ovvero, qualcuno sta udendo o pensando a un suono con quella particolare frequenza.

Dal pensiero al suono

Una volta raccolte tutte le informazioni necessarie i ricercatori hanno elaborato un algoritmo in grado di interpretare l'attività neurale nelle varie aree e creare uno spettrogramma dei suoni in esse processate: una sorta di rappresentazione grafica del suono pensato. Un secondo software ha permesso di trasformare lo spettrogramma nel corrispettivo discorso audio: ascoltando questo video pubblicato sul sito di NewScientist (fate una prova!) si possono cogliere somiglianze tra le parole qui udite e le reali parole udite dai volontari dell'esperimento. Una di queste, la più comprensibile, è "structure", struttura, in inglese.

Sento i tuoi pensieri

Siamo a un passo dalla creazione di una macchina della telepatia? È presto per dirlo. Ulteriori studi andranno compiuti in questo campo, anche perché il linguaggio non è solo frequenza, ma è composto da una miriade di altre componenti fisiche e metalinguistiche. Le possibili implicazioni della ricerca, tuttavia, sono enormi: se davvero imparassimo a decifrare il suono delle parole pensate potremmo per esempio, comunicare con chi, a causa di una malattia, è impossibilitato ad esprimersi, come i pazienti affetti dalla sindrome locked-in (che comporta la paralisi di tutti i muscoli del corpo, compresi quelli facciali). Le possibili conseguenze sul piano etico sono altrettanto importanti: immaginate che cosa accadrebbe in certe situazioni, se tutti potessero sentire ciò che istintivamente pensiamo.

29 giugno, 2012

Si avvicina il giorno del bosone di Higgs tra indiscrezioni e prudenza


Si avvicina il giorno della cosiddetta "particella di Dio". Il 4 luglio saranno presentati i nuovi dati sul bosone di Higgs in un seminario al Cern.

La settimana scorsa il CERN ha annunciato che i più recenti risultati della ricerca sul bosone di Higgs verranno presentati a Ginevra il 4 luglio alle 9.00 in un seminario ed una conferenza stampa che si potranno seguire in diretta sul web (con il commento in italiano anche su Focus.it).
Questo appuntamento coincide in maniera non casuale con l’inizio di ICHEP, l’International Conference on High Energy Physics, una delle più importati conferenze di fisica delle particelle al mondo dove i ricercatori delle collaborazioni del Large Hadron Collider impegnati in queste analisi, ATLAS (A Toroidal LHC ApparatuS) e CMS (Compact Muon Solenoid), saranno presenti in forze per fornire ulteriori dettagli sulla questione.


Indiscrezioni e prudenza
Quello che suggeriscono i soliti pettegolezzi che precedono incontrollabili (e non verificabili) questi eventi è che i nuovi dati continueranno a mostrare un segnale simile a quello già individuato e presentato a dicembre 2011 durante una conferenza curata dai leader dei due team, Fabiola Gianotti e Guido Tonelli, ma con una maggiore significatività statistica, sottolineando che quello su cui ci si dovrà concentrare sarà la compatibilità di questo segnale con le previsioni del Modello Standard, la teoria che descrive le particelle elementari e le loro interazioni.

Come procede la ricerca
Da allora i ricercatori del CERN hanno potuto contare su un numero sempre maggiore di collisioni tra i fasci di protoni che circolano nel tunnel, centinaia di trilioni al secondo, ad energie più alte (i fasci ora girano nel tunnel con un’energia di 4 TeV ciascuno). In queste queste condizioni si dovrebbe ottenere un maggiore tasso di produzione del presunto bosone di Higgs - il team CMS aveva dichiarato di aspettarsi di produrre in media, se esiste, un Higgs ogni ora - e, soprattutto, una restrizione dell’intervallo di massa in cui lo si sta cercando (che si trova attorno ai 125 GeV, una massa circa 125 volte quella del protone).
[Come si è arrivati alla scoperta del bosone di Higgs? La risposta del fisico Gigi Rolandi]

Il glossario di Higgs: Sigma, significatività, GeV, look-elsewhere... la spiegazione delle parole da conoscere per non arrendersi quando la scienza arriva in prima pagina.  Vai al glossario
Dov'è il bosone di Higgs?
Se è vero che ATLAS e CMS hanno visto qualcosa nella stessa regione e con le stesse caratteristiche di quello che era già stato trovato l’anno scorso vuol dire che gli indizi si stanno trasformando in prove. Per questo sarà estremamente importante seguire con attenzione tutto quello che verrà detto a Ginevra, cosa che di sicuro farà il presidente dell’INFN che ha invitato giornalisti e operatori dei media a partecipare ad un evento parallelo a quello di Ginevra e che si terrà nella sede dell’Istituto a Roma.

Sveglia! È finita l'adolescenza.


Non biasimate la proverbiale pigrizia dei giovani adolescenti: potrebbe avere un'origine biologica.

Sveglia! È finita l'adolescenza.
Non biasimate la proverbiale pigrizia dei giovani adolescenti: potrebbe avere un'origine biologica.
Orologio biologico sfasato?
Orologio biologico sfasato?
Alla sera leoni…
Non è una novità eclatante, anzi anche gli stessi adagi popolari lo sottolineano in modi coloriti: gli adolescenti preferiscono andare a letto tardi. E soprattutto al mattino, hanno molte difficoltà ad alzarsi.
Colpa della voglia “smodata” di divertirsi e di una sregolata pigrizia? Oppure esiste una causa biologica alla difficoltà dei ragazzi ad alzarsi al mattino? Una ricerca europea sulle abitudini del sonno sembra avere trovato il colpevole.
Svegliatemi quando è finita. Till Roenneberg, un cronobiologo dell'Università di Monaco, in Germania, ha infatti dimostrato che alla soglia dei 20 anni per i ragazzi, un po' prima per le ragazze, si verifica un brusco cambiamento nei ritmi sonno-veglia: improvvisamente e in modo molto repentino si tende ad andare a dormire prima. E secondo gli stessi ricercatori, questo mutamento segnerebbe la fine dell'adolescenza.
Se infatti, la fine della pubertà è facilmente rilevabile sulla base dello sviluppo dell'ossatura, non è altrettanto chiaro quando termina l'adolescenza e diventiamo adulti: si tratta di tappe meno definite sulle quali, comunque, influiscono anche fattori psicologici e sociali.
Gufi e allodole. Roenneberg ha sottoposto 25 mila europei persone dagli 8 ai 90 anni a un questionario sulle abitudini in fatto di sonno e veglia. Tali ritmi circadiani, regolati dal nostro orologio biologico, possono essere molto diversi, tanto che gli esperti sono abituati a distinguere le persone in due macrocategorie: i cosiddetti “gufi”, veri e propri nottambuli che non hanno sonno la sera, ma non riescono ad alzarsi presto al mattino; e le “allodole”, persone mattiniere che però la sera “crollano” velocemente dal sonno. Ma tali ritmi variano anche secondo l'età. E i ricercatori tedeschi hanno registrato che i ragazzi, all'avanzare dell'età, tendono a coricarsi (e svegliarsi) sempre più tardi. Ma questo tenenza ha una repentina inversione intorno ai 20 anni, un po' prima per le ragazze per le quali il ritmo sonno-veglia sembra legato anche agli ormoni. Il motivo non è ancora chiaro, ma il fenomeno è misurabile. E sembra valere per tutti: sia per chi abita in città (e ha numerose occasioni per tirar tardi la sera) sia per chi abita invece in luoghi rurali, dove la concentrazione di night club è decisamente bassa.

canzone ufficiale olimpiadi Londra 2012 !


Muse - Survival (London 2012 Olympics) HD



I meccanismi del ricordo musicale


perché alcune canzoni ci entrano in testa e non se ne vogliono andare?

L'ultimo successo di San Remo vi si è stampato nella testa e vi tormenta senza sosta notte e giorno? Secondo il professor William Kelly e il suo team di ricercatori potrebbe essere colpa della corteccia uditiva.
Kelly e i suoi colleghi hanno esposto una serie di volontari all'ascolto di brani musicali più o meno noti dai quali hanno eliminato alcune brevi sequenze sostituendole con dei silenzi. Tutti i soggetti hanno riferito di aver notato l'interruzione solo nei brani a loro sconosciuti. Nei brani noti, i buchi non sono stati percepiti.
Ritorna il ritornello. Durante la prova, il cervello dei partecipanti è stato monitorato mediante risonanza magnetica funzionale. È emerso che i silenzi nei passaggi musicali conosciuti stimolano una maggior attività neurale nelle aree di associazione uditiva del cervello, rispetto ai brani sconosciuti.Inoltre le pause nei pezzi solo strumentali generano un ulteriore aumento di attività in una zona della corteccia nota come corteccia uditiva. Anche in questa zona, l'attività cerebrale è maggiore quando il soggetto viene esposto all'ascolto di musiche note.
Alle origini del ricordo. Secondo Kelly, questo studio allarga i risultati di ricerche precedenti condotte parallelamente su ricordi visivi e uditivi, dai quali era emerso che le memorie di suoni e immagini sono conservate nelle zone del cervello che le avevano create.
Sia nei processi di elaborazione visiva sia in quelli di elaborazione uditiva, il meccanismo che porta alla formulazione del ricordo si basa sull'associazione linguistica: un nome viene associato ad un oggetto, un testo viene associato ad una melodia, oppure una persona viene associata a un numero di telefono.

L'abc per "rimorchiare"... ma senza parole


A un appuntamento romantico, sei un Don Giovanni o assomigli a Fantozzi? Sai essere seducente come una pantera o scostante come una pantegana?

L'abc per
A un appuntamento romantico, sei un Don Giovanni o assomigli a Fantozzi? Sai essere seducente come una pantera o scostante come una pantegana? Scopri se sai riconoscere il linguaggio del corpo... perché anche i piedi "parlano".

Il virus della violenza


In seguito a una "epidemia" di crimini avvenuta negli anni Novanta negli Stati Uniti, un team di sociologi ha studiato per cinque anni 1500 adolescenti nella loro realtà e ha scoperto che la...

Il virus della violenza
In seguito a una "epidemia" di crimini avvenuta negli anni Novanta negli Stati Uniti, un team di sociologi ha studiato per cinque anni 1500 adolescenti nella loro realtà e ha scoperto che la violenza è contagiosa.
Un cartello con diversi fori di arma da fuoco che dice: 'attenzione ai bambini che giocano'.
Un cartello con diversi fori di arma da fuoco che dice: "attenzione ai bambini che giocano".
La violenza secondo alcuni scienziati statunitensi non sarebbe simile a una “malattia” congenita o ereditaria, ma a una malattia infettiva e quindi contagiosa. Per questo il solo fatto di essere esposti al “virus” potrebbe portare a contrarre un comportamento violento. Secondo uno studio condotto da Felton Earls, della Harvard Medical School - e riportato daScience - assistere o rimanere coinvolto passivamente in episodi di violenza per un adolescente raddoppia le possibilità che diventi, a sua volta, una persona violenta. Earls per cinque anni ha studiato il comportamento di 1500 ragazzi di un sobborgo di Chicago, tra i 12 e i 15 anni, soffermandosi non tanto sulle loro relazioni in casa ma piuttosto fuori, nella comunità entro la quale vivono.

Ragazzi fuori. 
Il loro comportamento è stato studiato in base a 153 variabili diverse come la salute fisica, la difficoltà di trovare un lavoro, la struttura familiare e la tipologia di vicinato. I ragazzi sono poi stati divisi in due gruppi, quelli che avevano già assistito ad episodi di violenza con armi da fuoco e quelli che non ne erano mai stati testimoni né vittime. I risultati della ricerca sono stati che coloro che erano stati testimoni di un episodio di violenza avevano da due a tre volte più probabilità di sviluppare un comportamento violento nei due anni successivi all'episodio. «Da questo studio si capisce l'importanza del rapporto personale che ciascuno di noi ha con la violenza - afferma Earls - e il paragone migliore per definire la violenza potrebbe essere quello con una infezione sociale simile a una malattia».

Pericolo incubazione. 
Benché la relazione tra l'esposizione alla violenza e il comportamento violento sia stato evidenziato da molti studi anche in precedenza, è sempre molto difficile dimostrarne il collegamento diretto e capire il motivo che innesca il meccanismo.
«Quando gli individui hanno subito un certo tipo di esperienza - afferma Daniel Webster del Centro di ricerche sulle armi da fuoco di Baltimora - come assistere a un episodio di violenza oppure esserne vittime, diventano molto vigili e attenti».
Per questo sempre secondo Webster le persone esposte sono più a rischio: si sentono minacciate e assumono facilmente atteggiamenti ostili, con un meccanismo di autodifesa che li guida spesso alla violenza.

Così impariamo a parlare... nei primi 3 anni


La nostra capacità di imparare il linguaggio inizia a svanire già dal terzo anno d'età.

Così impariamo a parlare... nei primi 3 anni
La nostra capacità di imparare il linguaggio inizia a svanire già dal terzo anno d'età.
Pronto chi parla? I bambini imparano la grammatica e i vocabili molto più facilemente nei primi anni di vita.
Pronto chi parla? I bambini imparano la grammatica e i vocabili molto più facilemente nei primi anni di vita.
Non trovate mia le parole giuste per esprimervi? Per voi la grammatica è un'opinione? Litigate spesso con il vocabolario? Forse è tutta colpa di come avete vissuto i primi due anni di vita.
Secondo un recente studio, infatti, l'abilità di apprendere il linguaggio diminuisce già a partire dalla fine del secondo anno di età.
La ricerca conferma una teoria già diffusa tra gli studiosi: esisterebbe un periodo d'oro per l'apprendimento del linguaggio durante il quale la capacità di assimilare vocaboli e grammatica è maggiore. «Ma sorprendentemente, questo momento si presenta in una fase molto precoce della vita» ha spiegato Mario Svirsky, ingegnere acustico dell'Indiana University School of Medicine di Indianapolis che ha guidato la ricerca.
Se non sento, non imparo. Svirsky ha seguito un centinaio di bambini sordi sottoposti a un impianto cocleare durante i loro primi 4 anni di vita. L'impianto cocleare non è una protesi acustica, ma è un dispositivo elettronico molto sofisticato in grado di sostituire la coclea, la struttura ossea a forma di conchiglia che si trova nel cuore dell'orecchio e che converte le vibrazioni meccaniche in segnali elettrici da inviare al cervello.
Ha quindi sottoposto i bambini a una serie di test per valutare lo sviluppo del linguaggio e la capacità di comprensione e ha scoperto che i bambini con il livello di apprendimento maggiore erano quelli nei quali l'impianto cocleare era avvenuto prima del compimento del secondo anno di età.
Lezioni di canto per canarini. Analogamente, anche l'apprendimento del canto negli uccelli segue un percorso simile a quello del linguaggio nell'essere umano: i piccoli imitano i suoni che sentono da piccoli. Ma, come hanno dimostrato i ricercatori della Rockefeller University, una volta arrivati nell'età adulta sviluppano un canto che segue le regole convenzionali della specie.
Gli ornitologi che hanno condotto la curiosa ricerca, infatti, si sono domandati se il canto dei canarini nasca dall'imitazione degli adulti o sia istintivo. Per capirlo hanno sottoposto 16 piccoli canarini a un “canto” per nulla simile a quelli della specie e realizzato al computer. Ed effettivamente, come previsto, i canarini hanno seguito il loro percorso di apprendimento che va dai 6 agli 8 mesi: hanno imparato i suoni falsi e li hanno cantati con grande entusiasmo. Ma quando, crescendo, il livello di testosterone è aumentato, i canarini hanno iniziato a cantare anche secondo i canoni della specie.

Le castronerie dei prof


Che castroneria!
Insegnanti sgrammaticati e confusi: le castronerie iniziano dai banchi di scuola, ma poi non finiscono più! Viaggio irriverente nel mondo degli strafalcioni e delle gaffe che commettiamo ogni giorno...
I professori non sbagliano mai? Chi l'ha detto?Provate un po' a leggere le loro castronerie...
I professori non sbagliano mai? Chi l'ha detto?
Provate un po' a leggere le loro castronerie...
Siamo partiti con le gaffe che si sentono nelle aule italiane, sulle bocche dei professori ma anche su quelle degli alunni. le castronerie sono dappertutto, negli uffici, dal medico, al supermercato.Intanto qui sotto spassatevela con gli esempi più divertenti.
Prof di Inglese:
"È morto desanguato";
"È una società ipocrìtica"(ipocrita);
"Velosciamente"(velocemente);
"Disapprovano di Margaret";
"Lo vogliono bene" (gli vogliono bene);
"Le foglie che germolavano"(germogliavano).

Alessia


Prof di Italiano:
"Dove ve lo metto, all'orale?".

E gli studenti:
Interrogazione di storia dell'arte: "L'Auriga di Delfi è una figura femminile... cioè maschile... Maschile o femminile? Maschile... Femminile... Ah sì, è maschile! Mi scusi...";
Commento dopo un esame: "Questo era l'ultimo! E così abbiamo chiuso il circolo... [pausa] cioè, il circo!";
Laureando: "Che figata! La tesi la faccio con ACROBATAT! (Acrobat?)";
"Sicuramente ci sarà un SOTTORIFUGIO! (sotterfugio?)";
"Scopriremo il MALANDRONE! (malandrino?)".

Prof di Matematica:
"Ma manco se mi impicco a 'na ghigliottina!" ;
"La primavera v'ha schiuso i pulcini!";
"Ti giri avanti e la fai finisci?" ;
"Come fai a non capire? È la stessa cosa però non cambia niente!" ;
"Ragazzi, mi comincio a sfastidià eh!" ;
"Ve lo ripeto per la qualesima volta.....".

Prof di Latino e Greco:
"Ve la fidate? ;"
"Lo vogliamo ripeterlo?" . 
Prof di Inglese
Voleva fare riferimento alle antiche corti nobiliari, così ha deciso di paragonare la sua idea a "Elisa di Valleombrosa".

Prof di Filosofia:
"..Il quarto anno del triennio";
I primi giorni di scuola dice:”Oggi interroghiamo...
E comincio dai nomi che conosco...Tu come ti chiami???”;
"C'è poco micapoco brusio!";
"Il gesso questa mattina mi serve a fare altre
cose che a scrivere";
"Acusmapata =participio neutro al plurale”;
"I voti..non sono funghi sott'olio";
"Le parole devono essere lette
come le papatine pai..". 

Prof di Diritto:
“ Come ti chiami?” - Mattia.. - “E di nome?”;
“ Ci sono certi padri e certe madri che non hanno figli..”.

Prof di Storia:
“Una cosa che non capite ve la spiego un miliardesimo (1/1000000000)di volte!”;
“ Hai fratelli o sorelle?” -No.. -“Beh, dovresti passarci più tempo assieme..”;
“ Che abiti vanno di moda quest'anno? So che l'anno scorso c'era il "Vuci" (Woolrich);
“Aula di musica? Io non ci sono mai stata, Dov'è?” -Al primo piano, vicino a quella di informatica.. -“Già, infatti è sempre stata lì..”;
“C'erano i Maya, gli Azzecchi..”.

Prof di Italiano:
“ Il suggeritore fa il gobbo a teatro..”;
“Questa è una cosa internazionale, addirittura mondiale..”;
“Scusi Prof,come si scrive Shoah? - “S, H, O, A” -Ma no Prof, mi sembra abbia la "h" finale.. -“Bah...”.

Prof di Biologia:
“ Cos'è il glucosio?” -Non lo so.. -“Giusto, un monosaccaride!”.
Alcuni compagni:
D:”Dove passa il Po?”R:” Sotto i ponti.”;
“Gli Iceberg crescono sulle montagne...”;
D:”Chi ci va nelle moschee?” R:”I tre moschettieri!”;
“I greci attaccarono via aerea...”.


Donne al volante…


... pericolo costante? Nienten affatto. Ormai è scientifico: le donne guidano meglio degli uomini. Questione di ormoni. Ma la "polemica" prosegue. Voi cosa ne pensate?

Donne al volante…
... pericolo costante? Nienten affatto. Ormai è scientifico: le donne guidano meglio degli uomini. Questione di ormoni. Ma la "polemica" prosegue. Voi cosa ne pensate?
'È scientifico: guidiamo meglio degli uomini. Tutta questione di ormoni'.
"È scientifico: guidiamo meglio degli uomini. Tutta questione di ormoni".
Vilipese da sempre per la loro presunta incompatibilità con i motori, le donne si sono finalmente prese una schiacciante rivincita: dopo anni di prese in giro e canzonature, ecco una notizia che ribalterà per sempre - e con tanto di accuratezza scientifica - le accuse circa l'incapacità di guida delle donne. Un team di ricercatori della Bradford University (Inghilterra) ha condotto una serie di test su donne dai 18 ai 35 anni, arrivando a dimostrare che la donna ha un atteggiamento migliore rispetto alla conduzione di un veicolo rispetto all'uomo, secondo i criteri di prudenza, responsabilità e sicurezza.

Ormoni in circolazione. 
L'elemento chiave responsabile dell'efficienza riportata dal sesso femminile è la maggiore quantità di estrogeni presenti nella donna.
Lo studio, infatti, suggerisce che l'estrogeno possa influenzare positivamente l'attività neuronale dei lobi frontali, quella zona, cioè, preposta all'apprendimento delle regole e alla controllo dell'attenzione e dei riflessi.
Il testosterone, invece, prevalente nell'organismo maschile, indurrebbe gli uomini alla guida a lasciarsi andare a comportamenti rischiosi, più impulsivi e quindi poco prudenti e alla conduzione del veicolo con un'andatura più veloce di quella delle donne.
D'altro canto, però, il testosterone ha anche i suoi lati positivi. È fondamentale per sviluppare il senso dello spazio e delle misure, cosa che aiuterebbe i guidatori nelle manovre e nei parcheggi.

Scontro frontale. 
Insomma, a dispetto delle convinzioni maschili, le donne al volante non sono dunque un pericolo costante. In ogni caso, ciò non esclude la possibilità di incidenti da parte del gentil sesso. Anche in caso di collisione, però, le donne hanno riportato minori danni sia subiti che inferti, proprio grazie all'atteggiamento mantenuto durante la guida e durante l'incidente stesso.
Forte incidenza positiva sono la velocità, mantenuta più bassa dalle donne, e la prontezza di riflessi.

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I treni ad altà velocità in Europa


A che punto è l’alta velocità? Un’infografica pubblicata dal sito della CNN mostra il reale stato dei binari dove corrono i treni superveloci in Europa. Comparando tra loro i servizi e il numero di passeggeri che ogni anno se ne servono. Per alta velocità si intendono binari dove i treni viaggiano a più 250 km orari.
Clicca sulla foto per ingrandirla
La mappa mostra i binari già attivi, tra cui l’alta velocità italiana da Salerno a Torino, o la tratta Siviglia-Barcellona in Spagna e la Parigi-Marsiglia in Francia. I binari tratteggiati dovrebbero essere costruiti da qui al 2025: tra questi appare la tratta Torino-Lione, alla cui realizzazione si oppongono i movimenti No-Tav.
Il record dell’alta velocità va alla Francia con 114 milioni di passeggeri ogni anno. In Germania invece il treno veloce è un affare da 73 milioni di passeggeri ogni anno.L’Italia con poco più di 33 milioni di passeggeri fa meglio di Spagna (poco più di 28 milioni) e Gran Bretagna, dove l’alta velocità dei treni è ancora da farsi.
Il grafico in blu mette a confronto la rete ferroviaria dei vari paesi europei in base ai chilometri già coperti dalla TAV e a quelli in programma. Vince la Spagna che sul suo territorio ha una rete di 2056 km di binari per i treni veloci. Seguono Francia (circa 1900 km), Germania (1285 km) e Italia quarta con 923 km di binari veloci (più altri 400 in programma).
Tra le curiosità, scopriamo infine che il primo binario ad alta velocità europeo fu inaugurato proprio in Italia, tra Firenze e Roma nel 1978 (14 anni dopo quello Tokio-Osaka). E che il record mondiale di velocità è invece francesecon un treno lanciato a 574 km l’ora nell’aprile del 2007 (ma la velocità media del TGV non supera i 320 km orari).

28 giugno, 2012

Genio si nasce? No, si diventa!


Secondo una recente pubblicazione dell'Università di
Cambridge, la genialità non è una dote innata.
Per diventare grandi scienziati, grandi musicisti
o insuperabili calciatori servono un minimo
di predisposizione, ottimi insegnanti, e la ferrea
 volontà di diventare i migliori.
Se siete tra coloro che ammirano sconsolati i capolavori dei grandi, siano essi scrittori, pittori, scienziati, o sportivi, pensando che competere con la loro eccellenza sia impossibile, non disperate: secondo una recente ricerca condotta in Inghilterra essere un genio non è solo questione di nascita e quindi di fortuna: la genialità può essere coltivata giorno dopo giorno, lavorando sodo e impegnandosi con dedizione.

Lavorare, lavorare, lavorare 
I risultati di questo singolare studio sono riassunti in una pubblicazione dell’Università di Cambridge intitolata Cambridge Handbook of Expertise and Expert Performance (ossia il Manuale di Cambridge della Perizia e dell’Eccellenza) recentemente presentata dalla rivista New Scientist. Secondo i ricercatori dell’illustre ateneo, le capacità straordinarie degli individui comunemente ritenuti dei geni, non sono un dono innato, ma il frutto di una sapiente combinazione di doti personali, istruzione di altissimo livello, e ore di studio e applicazione.

Geni non per caso 
Spiegare come si forma un genio non affare da poco: secondo Anders Ericsson, professore di psicologia presso la Florida State University e curatore del manuale, la genialità si sviluppa quando una persona intelligente debitamente istruita e supportata, concentra tutti i propri sforzi nel raggiungere abilità e competenze straordinarie in un determinato campo dello scibile umano.

L’intelligenza intelligente 
E questi individui non devono necessariamente avere un quoziente intellettivo fuori dal comune, quanto degli ottimi insegnanti, un ambiente che li stimoli a migliorarsi continuamente, e soprattutto una voglia di impegnarsi, questa sì, davvero straordinaria.
Cristiano Ronaldo Cristiano Ronaldo  of Real Madrid takes a free kick during the UEFA Champions League round of 16 2nd leg match between  Real Madrid and Olympique Lyonnais at Estadio Santiago Bernabeu on March 10, 2010 in Madrid, Spain.
Capacità di analisi e sintesi fuori dal comune
fanno la differenza tra ottimi calciatori e veri
fuoriclasse. I grandi campioni come
cristiano ronaldo riescono a calcolare tutte
le variabili in grado di influenzare un tiro,
e non lasciano scampo al portiere.

  Un quoziente intellettivo altissimo, da solo, non è infatti sinonimo di genialità: i grandi musicisti o i campioni di scacchi hanno solitamente un q. i. molto elevato, spesso compreso tra 115 e 130. Si tratta di un valore di tutto rispetto, ma comune al 14% della popolazione. E non tutti sono classificabili come geni.
Sebbene quindi sia innegabile che alcune persone siano più predisposte o dotate di altre in alcune discipline, ciò che fa la differenza è l’impegno profuso nel raggiungimento di risultati straordinari. Stephen Hawking, uno dei più grandi fisici al mondo, esplicitò le proprie capacità solo attorno ai 25 anni, quando iniziò a occuparsi in modo quasi ossessivo di buchi neri, assieme al fisico Penrose.

Cervelli in palestra 
Applicazione e studio continui costituiscono infatti per il cervello un vero e proprio allenamento: Eric Kandel della Columbia University, in una sua ricerca del 2000 che gli è valsa il Nobel, ha evidenziato come la ripetizione continua di una medesima lezione incrementi il numero e la robustezza delle connessioni nervose associate alla memoria. Uno studio ininterrotto e mirato serve quindi a costruire una vera e propria rete neurale della conoscenza.

Dieci anni per eccellere 
L’osservazione delle performance di coloro che sono ritenuti dei geni, ha consentito agli studiosi di introdurre una sorta di “regola del dieci”. Lo psicologo Benjamin Bloom della University of Chicago e i suoi colleghi hanno analizzato le performance di un campione di 120 personalità eccellenti tra cui scienziati, musicisti e sportivi, scoprendo che queste persone lavorano duramente per almeno dieci anni prima di essere riconosciuti come fuoriclasse nella propria disciplina. Mozart, ad esempio, sebbene a 7 anni scrivesse già sinfonie, non produsse nulla che lo rese famoso prima dell’adolescenza. E anche i più grandi i nuotatori olimpici si alleano in media quindici anni prima di poter gareggiare ai massimi livelli.

Schemi vincenti 
Lo studio evidenzia come una delle differenze tra persona intelligente e genio risieda nelle altissime capacità di sintesi e schematizzazione di quest’ultimo: un campione di scacchi è in grado di memorizzare con impressionante precisione la posizione dei pezzi sulla scacchiera e analizzare in pochi istanti tutte le possibili mosse e contromosse. Allo stesso modo, Ronaldinho o David Beckham sono capaci di calcolare tutte le variabili in grado di influenzare la traiettoria di un tiro che risulterà imprendibile anche per il migliore dei difensori. 

La formula della genialità Ma esiste una ricetta per diventare geni? Secondo il manuale di Cambridge sì, ed è data da un 1 per cento di ispirazione, un 29 per cento di ottima formazione e il 70 per cento duro di lavoro. E quindi, non resta che rimboccarsi le maniche, chinare la testa sui libri, e fare il proposito di diventare i migliori. Volere è potere! 

Com'era il cervello di Einstein? Ora possiamo vederlo


Fu così geniale da spingere i neuroscienziati di tutto il mondo a cercare di scoprire i segreti della sua materia grigia: ora 46 frammenti del cervello di Einstein sono esposti al Mutter Museum di Philadelphia.

                                                                                           
Com'era il cervello di Einstein? Ora possiamo vederlo quando mori nel 1955 Albert Einstein  venne sottoposto ad autopsia per mano del patologo Thomas Harvey, che rimosse il cervello dalla sua sede naturale come da procedura e che, invece di rimetterlo al suo posto, lo conservò nel suo studio.
Harvey era convinto che le cause della straordinaria genialità dello scienziato fossero da attribuirsi a cause biologiche, e per questo motivo studiò minuziosamente la materia grigia del padre della teoria della relatività, inviandone dei frammenti anche a diversi neuroscienziati sparsi per il mondo. 
I 46 frammenti del cervello di Einstein, dopo vari passaggi tra ospedali e medici, sono entrati in possesso del Mutter Museum di Philadelphia, che li ha messi in mostra insieme ad altri reperti molto particolari come il tumore del presidente Grover Cleveland e tessuti del collo di John Wilkes Booth, l'uomo che uccise Abramo Lincoln.
Anna Dhody, curatrice della mostra, ha dichiarato:
"Il nostro scopo è quello di permettere ai visitatori di capire com’è fatto il cervello di un genio, anche per enfatizzare quello che non si sa, ovvero cosa c’è di diverso nei tessuti di Einstein tali da renderlo tanto grande"

 


Il ritmo del cervello influenza la memoria


  
 Avete perso le chiavi di casa? Rassegnatevi: ritrovarle dipenderà esclusivamente dallo stato di attività del vostro cervello. I ricercatori della University of California di Davis hanno misurato la frequenza di alcune particolari onde cerebrali, chiamate onde theta, su un gruppo di volontari sottoposto a test di memoria. Poco prima che i soggetti ricordassero in quale contesto avessero udito una determinata parole è stato osservato un picco do onde theta, che si registrano quando il cervello sta monitorando attentamente qualcosa. La scoperta evidenzia che la capacità di far ritornare alla mente un ricordo non dipende da stimoli esterni, come in precedenza ipotizzato, ma principalmente dall'attività interna del cervello.
 La prossima volta che perdete qualcosa, chiamate a raccolta le vostre onde theta.

              




Se vuoi essere felice, tieniti stretti i ricordi negativi


Cose da non rifare
Cose da non rifare


Tenere a mente ciò che ci ha turbati è il primo passo per lasciarsi alle spalle la malinconia. E chi ha problemi di memoria rimane triste più a   lungo. 

Bere per dimenticare non funzionerà. E nemmeno tentare di distrarsi a tutti i costi, o cercare una pillola che con un colpo di spugna cancelli quel ricordo che vi tortura da mesi. Con le memorie negative è meglio imparare a conviverci, o la tristezza che ne deriva durerà più a lungo: lo dimostra un recente studio statunitense.
Tristezza cinematografica. Un'equipe di neuroscienziati dell'Università dello Iowa (USA) diretta da Justin Feinstein, ha selezionato 10 persone, 5 delle quali affette da una particolare forma di amnesia - in questo caso, l'incapacità di elaborare nuovi ricordi - derivante da un danno all'ippocampo, una parte del cervello fortemente coinvolta nella memoria e nella navigazione spaziale. A tutti i soggetti sono stati poi mostrati alcuni spezzoni di film "strappalacrime" alla Forrest Gump.
Non ricordo... ma fa male. Dieci minuti più tardi i ricercatori hanno testato le emozioni di tutti e 10 i volontari. Scoprendo che mentre i soggetti sani sembravano aver "digerito" il ricordo malinconico dei film, gli amnesici rimanevano tristi a lungo, pur faticando a ricordare che cosa avesse fatto scattare in loro questo stato d'animo.
La prova del nove. Lo stesso esperimento è stato quindi ripetuto, questa volta proponendo scene di film allegri e divertenti. Con risultati simili, tranne che in un punto: le emozioni negative registrate dopo la visione della prima serie di proiezioni, duravano negli amnesici molto più a lungo di quelle positive del secondo esperimento.

Un antidoto al dolore. Una possibile spiegazione secondo i ricercatori, potrebbe essere che l'abilità di immagazzinare i ricordi tristi, e di rifletterci su, ci aiuti in qualche modo ad alleviare le emozioni negative che ne derivano. Come se conoscerne la causa servisse a farcene una ragione.
Se manca un "tassello" si soffre più a lungo. Ma c'è anche chi, in seguito a traumi cerebrali o patologie degenerative come la malattia di Alzheimer, ha perso questa possibilità. E non riuscendo a "ripescare" nella sua memoria la ragione della propria sofferenza, ne paga comunque le conseguenze in termini emotivi. «Questi risultati sottolineano l'importanza di mantenere un atteggiamento rispettoso nei confronti delle persone con problemi di memoria» ha detto Feinstein «perché anche se non ricordano il motivo di uno sgarbo, in loro la tristezza dura più a lungo»